La giustizia civile in Italia? Non è cosa per poveri…

La giustizia civile in Italia? Non è cosa per poveri…
10 Settembre 2018: La giustizia civile in Italia? Non è cosa per poveri… 10 Settembre 2018

Non basta aver ragione; bisogna avere anche qualcuno che te la dia”.

In questo modo un politico italiano di lungo corso, senza rendersene conto, aveva brillantemente sintetizzato il rapporto tra diritti e processo.

Infatti, uno Stato di diritto, per potersi definire tale, deve non solo riconoscere ai propri cittadini i loro diritti, ma anche rendere loro accessibili i mezzi per tutelarli, e cioè per farsi dar ragione, quando ritengono di poterla avere.

Di questi mezzi ovviamente il processo civile è uno dei più importanti.

Esso è un fondamentale collante della convivenza civile, poiché venne inventato proprio ut ne cives ad arma venias, e cioè per evitare che i cittadini si facciano giustizia da sé…

Perciò è chiaro che le condizioni economiche di accesso alla giustizia civile contribuiscono a definire i connotati di uno Stato di diritto.

E’ ben vero che anche l’amministrazione della giustizia è un servizio pubblico ed ha i suoi costi.

Ma lo Stato può scegliere se e in che misura farli gravare sul singolo cittadino che chiede giustizia, piuttosto che sopperire ad essi con la fiscalità generale.

In linea di principio chiedere ai singoli utenti di contribuire a questi costi non è discriminatorio, e infatti lo Stato italiano lo fa da sempre, ma può diventarlo se il contributo richiesto diventa sproporzionato al servizio reso o supera un certo limite.

In tal modo, infatti, l’accesso alla giustizia civile rimarrà possibile ai più ricchi, ma diventerà difficile e rischioso, se non impossibile in certi casi, per i meno abbienti.

C’è seriamente da chiedersi se quel limite in Italia non sia stato già superato.

Dal 2002, infatti, all’imposta di registro che si paga sui provvedimenti giudiziari, si è aggiunto il “contributo unificato per le spese di giustizia” che deve essere pagato da chiunque proponga una domanda giudiziale.

Inizialmente istituita per sostituire le “marche da bollo” che un tempo di apponevano sugli atti giudiziari, questo tributo è stato (dichiaratamente) trasformato dai nostri governanti in uno strumento per incentivare la “degiurisdizionalizzazione”.

Cioè per scoraggiare le liti giudiziarie e ridurre il numero delle cause, con l’intento di rendere più rapida la giustizia civile.

Coerentemente con questo obiettivo, dal 2002 ad oggi, l’importo del contributo unificato è stato aumentato a più riprese (ben sei volte), sino a divenire un balzello onerosissimo.

Ed ha assunto caratteri difficilmente giustificabili sotto il profilo razionale.

Un semplice esempio potrà spiegare molte cose.

Prendiamo il caso di una controversia di medio valore (per una somma compresa tra i 52.000 e i 260.000 euro), in relazione alla quale un lavoratore a stipendio fisso con famiglia “monoreddito” intenda far valere ciò che ritiene esser suo diritto.

E poniamo il caso che costui si veda respingere la propria domanda in primo grado e poi anche in appello, ma sia così convinto delle proprie ragioni e così disposto al rischio da adire anche il terzo grado di giudizio, sentendosi finalmente “dar ragione” dalla Corte di Cassazione.

Per iniziare la causa davanti al Tribunale questo signore dovrà sborsare 786 euro di “contributo unificato”.

Una volta pronunciata la sentenza dovrà pagare l’imposta di registro (altri 200 euro), oltre al proprio avvocato e, qualora le spese di giudizio non gli vengano compensate dal Giudice, anche quello del suo avversario.

Per appellare dovrà poi anticipare altri 1.165,50 euro di “contributo unificato”.

Ma, poiché (come abbiamo ipotizzato) il suo appello sarà respinto, al termine del giudizio di secondo grado, dovrà pagare un’altra volta il “contributo unificato”, sborsando altri 1.165,50 euro.

A questi si aggiungeranno ovviamente l’imposta di registro (altri 200 euro), le proprie spese legali e, verosimilmente, pure quelle del proprio avversario.

A questo punto la Cancelleria della Corte di Cassazione, nel momento in cui depositerà il suo ricorso, chiederà al nostro tenacissimo lavoratore con famiglia a carico altri 1.545 euro.

In totale, sino a quel momento, egli avrà quindi pagato allo Stato 4.662 euro di “contributo unificato”, più 400 euro di imposta di registro, e cioè oltre 5.000 euro.

Tenete presente che, per compiere questo percorso, egli impiegherà, ben che gli vada, una decina d’anni e che, come sovente accade, potrebbe avere anche qualche giustificata rimostranza da fare sulla qualità del servizio resogli dallo Stato…

Ora, quanti di noi, mettendosi nei panni di quel cittadino, di fronte ad una simile prospettiva di spesa, deciderebbero di farla quella causa?

Io credo davvero pochi.

Dobbiamo allora ammettere che questo sistema, di fatto, discrimina ricchi e poveri proprio in un settore che, per definizione, dovrebbe abbattere le barriere fra di loro, e cioè l’accesso alla giustizia.

Rendendo inaccessibile il processo civile ai meno abbienti, infatti, si nega nei fatti ciò si proclama solennemente in ogni aula di giustizia, laddove sta scritto che “la legge è uguale per tutti”.

Un pedaggio esagerato per accedere al processo civile fa sì che coloro che “possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti” non siano proprio “tutti” i cittadini, come prescriverebbe l’articolo 24 della Costituzione, ma solo quelli che se lo possono permettere.

E, a mio avviso, sarebbe ora che tutti i giuristi, magistrati ed avvocati in testa, facessero sentire la loro voce per protestare contro una politica giudiziaria che vuole velocizzare il processo civile rendendolo economicamente inaccessibile alla maggior parte numero di cittadini.

 

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